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I Tre piani di Nanni Moretti. Quel Giudizio Universale che non passa per le nostre case

I Tre piani di Nanni Moretti. Quel Giudizio Universale che non passa per le nostre case

 

di Marco Urbani

Non dobbiamo chiuderci nelle nostre case, nei nostri tre piani, perché la salvezza è sulla strada.

Questo il tema del tredicesimo lungometraggio diretto da Nanni Moretti intitolato Tre piani.

E’ il primo film che il regista romano ha diretto senza partire da un soggetto originale; il film, infatti, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo.

La pandemia ci ha dimostrato che in un dolore collettivo esiste ancora una comunità; esiste la solidarietà fra le persone che, come dice Camus nel romanzo La peste, è l’unica strada per la salvezza dell’uomo.

Anche in un dolore che non è collettivo ma è condiviso (due carcerati, due malati in ospedale o in generale due persone che condividono una sventura) si mantiene un senso di solidarietà.

Il dolore individuale, invece, spesso è qualcosa che spezza e che divide le persone.

La solidarietà è la sola salvezza dell’uomo e non ci può essere solidarietà se le nostre esistenze sono isolate e sprofondate nel sospetto.

 “Perché il giudizio universale
Non passa per le case
Le case dove noi ci nascondiamo
Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo

Questi versi sono tratti dal brano C’è solo la strada del 1974 di Giorgio Gaber; testo, a sua volta, ripreso da una bellissima pagina del romanzo Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline:

Tutto deve finire per passarci, nella strada. Quella solo conta (). Nelle case, niente di buono. Quando una porta si chiude dietro un uomo, lui comincia subito a puzzare e tutto quel che si porta dietro puzza anche. Passa di moda sul posto, corpo e anima ().”

Questo il senso del film Tre piani di Nanni Moretti.

Tre piani, tre famiglie che vivono in un palazzo d’inizio Novecento nel quartiere Prati.

I tre piani sono anche i tre livelli nei quali Freud ha diviso l’apparato psichico di una persona: l’es, l’io e il super io.

Questa tripartizione, centrale nel romanzo di Nevo, è stata solo il punto di partenza nel film di Moretti.

Al primo piano vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti); due carriere avviate e una figlia di sette anni, Francesca, che parcheggiano dai vicini Giovanna (Anna Bonaiuto)  e Renato (Paolo Graziosi).

Lucio e Sara pensano che non sia più il caso di lasciare la figlia dai vicini; Renato, infatti, è malato di Alzheimer (Renato è guasto dice la bambina, come fosse un oggetto che non funziona più); Lucio inoltre prova disagio verso alcune tenerezze che l’uomo anziano rivolge alla figlia; è la normale amorevolezza di un nonno verso una bambina o quei bacini sulla guancia, quel giocare al cavalluccio, nascondono qualcos’altro?

Nonostante questi dubbi i due coniugi continuano a lasciare la figlia dai vicini perché quella è la soluzione più comoda, soprattutto per una vita, come quella di Lucio, che va di fretta.

Una sera, mentre sta facendo spinning estremo in palestra, un correre forsennatamente sul posto,  metafora della sua vita, Lucio viene avvisato che Renato è scomparso con la bambina da diverse ore.

Quando finalmente i due vengono ritrovati, Lucio, l’Es, le pulsioni primordiali, teme che sua figlia sia stata violentata.

La sua paura si trasformerà in una vera e propria ossessione.

Al secondo piano vive Monica (Alba Rohrwacher), alle prese con la prima esperienza di maternità.

Suo marito Giorgio (Adriano Giannini) è un ingegnere che trascorre lunghi periodi all’estero per lavoro.

Monica, l’io freudiano, l’istanza che media i conflitti tra gli istinti e il dover essere, combatte una silenziosa battaglia contro la solitudine e la paura di diventare un giorno come sua madre, ricoverata in clinica per disturbi mentali.

Anche Monica comincia ad avere delle visioni: un corvo, il fratello del marito.

Sono reali o sono un’invenzione?

Il linguaggio cinematografico si presta a diverse interpretazioni.

Giorgio capisce che non potrà più allontanarsi da sua moglie e sua figlia.

Sarà troppo tardi?

Tutti camminiamo su un filo tra il razionale e l’irrazionale.

Il cinema di Moretti è entrato tante volte in rapporto con la psicanalisi; dalla ragazza schizzofrenica interpretata da Lina Sastri in Eccebombo, all’uomo che pensa di essere Freud in Sogni d’oro, al suo ruolo di psicanalista nel film La stanza del figlio e Habemus Papam.

All’ultimo piano abitano da trent’anni due giudici, Vittorio (Nanni Moretti), sua moglie Dora (Margherita Buy), con il figlio ventenne Andrea (Alessandro Sperduti).

Moretti incarna il Super io, il dover essere; una maschera che, per il suo rigore, lo rende un personaggio tanto positivo nei panni di un giudice quanto negativo nel contesto familiare.

Questa è la nostra strada, questa non è la nostra strada” decreta Vittorio (Moretti); un Super io che vuole tracciare non solo la strada per sè stesso e per la moglie ma anche quella per il figlio; un figlio che hanno cresciuto sul banco degli imputati.

Ma se le aspettative sono troppo alte? Se succede l’imprevisto? Se questa strada deraglia? 

Una notte il ragazzo, ubriaco, investe e uccide una donna.

Sconvolto chiede ai genitori di fargli evitare il carcere. Vittorio pensa che suo figlio debba essere giudicato e condannato per quello che ha fatto.

La tensione tra padre e figlio esplode, fino a creare una frattura definitiva tra i due.

Il regista mette in scena questa rottura in un’unica inquadratura, senza tagli, con il correlativo oggettivo di una segreteria telefonica.

Vittorio costringe Dora a una scelta dolorosa: o lui o il figlio.

Tre piani è anche un film sul valore del perdono e su quanto sia difficile sopportare le scelte degli altri.

Quando questi nodi saranno sciolti, il finale sarà un lancio verso il futuro, la presa di coscienza che il giudizio universale non passa per le nostre case, per i nostri tre piani.

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