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Perché l’Ulisse di Joyce ha rivoluzionato la letteratura

Perché l’Ulisse di Joyce ha rivoluzionato la letteratura

I cento anni dell’Ulisse. Il volto dell’opera che ha cambiato la letteratura mondiale

Di Marco Urbani

Era il 2 Febbraio del 1922 (2/2/22) quando la libreria americana di Parigi ”Shakespeare and Company” di Sylvia Beach metteva in vendita la prima edizione dell’ Ulisse.

Quello stesso giorno James Joyce compiva 40 anni.

L’Ulisse è il libro che più di ogni altro fingiamo di aver letto e, in maniera inconfessabile, molte volte abbiamo abbandonato al Proteo (terzo capitolo ndr).

In fondo non è sempre necessario comprendere, capire, far morire. Bisogna accontentarsi di sapere che la perfezione si trova rilegata in più di 700 pagine in quello e non in quell’altro scaffale della nostra libreria. “Tutto questo è già più di tanto” per dirla alla Fossati.

Perché l’Ulisse ha rivoluzionato la letteratura? Questa è la domanda a cui voglio tentare di rispondere in questo articolo.

Walter Benjamin inizia il capitolo VIII del suo saggio “Il Narratore – Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov” con questa frase: “Non c’è nulla che assicuri più efficacemente le storie alla memoria di quella casta concisione che le sottrae all’analisi psicologica”.

Benjamin, quindi, dice che un personaggio sarà tanto più memorabile quanto più viene descritto con delle azioni che hanno la meglio sull’inconscio e sul chiaroscuro psicologico.

In tal senso possiamo pensare a Sorel, protagonista del romanzo “Il rosso e il nero” di Stendhal.

Di Sorel conosciamo solo le azioni significative.

Lo vediamo poco nel suo quotidiano e non sappiamo alcunchè del suo inconscio.

Sorel quindi, rappresentante della borghesia europea della prima metà dell’ Ottocento, ha la stessa struttura dell’eroe classico che, come ci dice Benjamin, è memorabile.

Confrontando Stendhal con Flaubert, in particolare “Il rosso e il nero” e “Madame Bovary”, è chiaro come Sorel ed Emma condividano lo stesso idealismo e la stessa mancanza di inconscio.

L’unica “epocale” differenza (uso la parola “epocale” per sottolineare che da questa differenza parte il concetto di letteratura moderna) sta nell’uso del quotidiano: mentre in Stendhal, come abbiamo detto, il quotidiano viene in gran parte sorvolato, in Flaubert il quotidiano non solo è presente ma rappresenta la forza che si oppone all’idealismo di Emma.

Flaubert quindi è stato di fatto il primo grande scrittore naturalista perchè ha eliminato l’azione e ha dato più importanza alla forma stilistica rispetto all’intreccio. Per questo Flaubert può considerarsi il “padre” di James Joyce.

Carmelo Bene, intervistato nel 1988 da Antonio Debenedetti nel programma Una sera un libro” (video disponibile su You tube) ha detto che se Joyce non avesse scritto l’Ulisse ma si fosse fermato a Gente di Dublino e al Ritratto dell’artista da giovane, sarebbe rimasto sepolto nella “miriade” degli artisti della penna.

Per anni, sbagliando, ho interpretato questa frase come una delle boutade di Carmelo Bene.

Non capivo infatti come si potesse affermare che uno scrittore che aveva scritto un capolavoro come Gente di Dublino potesse, secondo Carmelo Bene, finire nel dimenticatoio.

In Gente di Dublino la paralisi delle strutture del potere irlandese: cultura, religione, politica, si esprimono attraverso personaggi che hanno una paralisi, sia essa fisica, morale, intellettuale, psicologica, attraverso un naturalismo che, come abbiamo detto, è anch’esso uno stile “paralizzato” dal momento che c’è riduzione dell’intreccio, dell’azione, a vantaggio dell’atmosfera, del soggetto, dei dettagli. Come si può non rimanere immortali con un capolavoro del genere?

Eppure dopo anni mi sono reso conto che Carmelo Bene aveva ragione. 

Gente Di Dublino, per quanto opera incommensurabile, non si distacca in maniera significativa dal romanzo naturalista di Flaubert ossia da quel naturalismo che non va oltre i comportamenti e le apparenze.

E’ solo nell’Ulisse che Joyce realizza la vera e propria rivoluzione ed è solo l’Ulisse che segna il superamento di Flaubert e consegna Joyce tra gli immortali.

Il naturalismo dell’Ulisse non si ferma al soggetto, alle apparenze, ai comportamenti ma entra nella vita interiore del personaggio.

E’ vero che anche l’eroe classico, pensiamo ad Amleto, entrava in scena esprimendo il suo pensiero con un monologo ma, come ho detto per“Il rosso e il nero” di Stendhal, l’eroe classico non aveva inconscio; il  monologo interiore di Joyce, invece, è paragonabile alla trascrizione su carta del pensiero del personaggio grazie a degli elettrodi immaginari che l’autore ha posto nella sua mente.

Gran parte della bellezza di Joyce, quindi, sta nel contrappunto tra ciò che si pensa e le apparenze.

Il naturalismo dell’Ulisse non abolisce solo l’azione ma anche il tempo.

Se manca l’azione anche il tempo si appiattisce, si atrofizza in tanti giorni tutti uguali. Ecco perché l’Ulisse si svolge in una giornata sola, un giorno qualsiasi, il 16 giugno 1904.

L’uomo che vive un giorno solo è, per citare un racconto di Edgar Allan Poe, “L’uomo della folla”; un uomo per cui il tempo perde valore. Un uomo che non deve più contare gli anni trascorsi in guerra, i giorni di prigionia, le settimane di occupazione di un territorio. Non è più l’Occidente di Napoleone.

Il naturalismo dell’Ulisse, su un piano stilistico, finisce per privilegiare i mezzi di cui l’artista si serve per esprimere il proprio sentimento letterario; è l’arte stessa, cioè la scrittura, a porsi come un filtro tra il reale e l’artista.

Questo ci porta a concludere che l’Ulisse, con la sua sterminata ricchezza di vocaboli -circa 29.000, non va letto come un grande romanzo ma come un poema, come una “poesia”.

Come fa a rimanere compatta un’opera dove il naturalismo è un agglomerato di inconscio e quotidiano, senza azioni e senza tempo? L’opera rimane compatta grazie al simbolismo.

L’Odissea non è il fine dell’Ulisse ma è il mezzo per tenere unita la struttura.

Infatti se è vero che l’Odissea è la struttura principale che scandisce l’Ulisse, è altrettanto vero che tutta l’opera è piena di note e di riferimenti a moltissime storie che, anche loro, sono da intendersi come i perni simbolici necessari per reggere l’espressione estrema del naturalismo.

Se crolla l’impianto simbolico abbiamo il Finnegans Wake, ultimo romanzo di Joyce, pubblicato a Londra nel 1939, dove l’uomo si trasforma in associazione di idee, in pura sovrapposizione di più di settemila anni di cultura.

Joyce non racconta l’uomo come deve essere. Racconta l’uomo com’è, finchè tutte le voci dell’Ulisse si chiudono in un’unica voce, quella di Molly Bloom con il suo immortale monologo finale scandito da quel “sì”: “sì alla vita”, “sì all’uomo”, “sì a tutto”.

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