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Anniversario. Un ricordo del poeta Alberto Teodori. A scrivere poesie in una stanza del cielo

Anniversario. Un ricordo del poeta Alberto Teodori. A scrivere poesie in una stanza del cielo

“I versi devono riempirsi di vita”

di Marco URBANI

Quando lo salutavo, Alberto sollevava il viso lentamente e, quando incrociava il mio sguardo, il suo volto arrossiva come se anche il saluto fosse una confessione.

I suoi occhi esitavano per qualche istante in un cenno delicato e poi tornavano a rifugiarsi in basso, in un abisso lontano “Lontano dal mare, dai boschi dalle foreste, dalle caverne, dalle montagne” oltre le avventure dell’intelletto e dello spirito, oltre ogni solitudine.

Uno sguardo che finiva nel luogo remoto della poesia, dove le parole prendono delicatezza e sono vere, autentiche come la carezza di una madre.

Quando chiedevo ad Alberto una dedica su un suo libro, tirava fuori dalla giacca la sua stilografica, svitava lentamente il tappo e lasciava che la luce si posasse sul suo pennino d’oro finemente decorato con un tripudio di fregi.

Me lo ricordo con il panama, la pipa, l’odore di tabacco forte, seduto al caffè quando il caffè non era più il caffè dei salotti letterari.

Un giorno mi disse: “i versi devono riempirsi di vita” e poi rise, rise di una risata scoppiettante di “i” .

Risi anche io. Non capii quello che voleva dirmi. A quel tempo ero un bambino; facevo esplodere le penne nelle tasche dei cappotti e giravo con le cuffie del walkman nelle orecchie dove ascoltavo a ripetizione Bufalo Bill di De Gregori.

Alberto me lo ricordo anche nei premi letterari e nei pranzi dei premi letterari; gli unici in cui gli invitati non si lamentavano mai delle lungaggini del servizio perché quei pranzi erano solo un pretesto per ritrovarsi e recitare poesie e pezzi di racconti. 

Me lo ricordo in quel grande carnevale.

Ricordo le antologie che passavano di mano in mano; ricordo che ogni volta si diceva: “quest’anno l’antologia è davvero bella” e poi mi ricordo l’anno in cui, inesorabilmente, si è cominciato a dire: “era più bella quella dell’anno scorso”. Era la fine del secolo.

Ricordo le calze a rete portate senza malizia dalle gambe delle poetesse.

Ricordo i “Shhh, sentiamo la motivazione”; ricordo le coppe, le medaglie, le targhe e i quadri d’autore.

Quando qualche anziano veniva chiamato a declamare una poesia in vernacolo, lo guardavo come un emissario satanasso dell’oltretomba: a quel tempo, infatti, non avevo nemmeno 10 anni, credevo che la parola “in vernacolo” fosse tutta una parola “invernacolo” e per assonanza credevo avesse a che fare con l’inferno; i bambini si fidano troppo delle assonanze.

Ricordo questo grande carnevale.

Ricordo il premiato che portava tutti i parenti e montava la cinepresa, come un grosso animale nero, sul corridoio della sala consiliare; ricordo l’uomo che veniva dalla Germania e ricordo che c’era sempre una poesia intitolata “ricordi”.

 Ricordo questo carnevale; questa buona aria da respirare.

Poi un giorno mi sono voltato e di quel carnevale non era rimasto più niente.

Ho riascoltato Bufalo Bill e ho provato una sensazione completamente diversa.

Ho mandato avanti e indietro più volte il nastro quando il Principe dice:

Io unico figlio, biondo quasi come Gesù/

Avevo pochi anni e vent’anni sembran pochi/Poi ti volti a guardarli e non li trovi più” e mi sono reso conto che mi era successo proprio questo: mi ero voltato per cercare i miei vent’anni, per respirare ancora l’aria di quel carnevale e avevo trovato solo delle ombre.

Solo lì, ascoltando da adulto quel pezzo di canzone, ho capito davvero le parole che Alberto mi aveva detto: “i versi devono riempirsi di vita”.

Anche se i miei giorni mi hanno portato nelle fredde periferie del mondo, basta un odore e quel ricordo prende vita, quel carnevale si ricompone nella mia mente e diventa un caldo rifugio per il cuore.

In quel rifugio c’è anche Alberto, la sua vita in punta di piedi, la sua delicatezza, la compostezza e il suo essere un poeta.

A due anni dalla sua morte mi piace ricordarlo così e pensarlo adesso a scrivere poesie, a comporre castelli di carta in una stanza del cielo.

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